Il perché di una spedizione
La storia di Antarctica 2000 inizia a metà degli anni ’80 quando su un libro sull’Antartide vidi una carta del continente bianco disegnata nel 1535. Come poteva esistere una carta con dati raccolti con sonde elettroniche 450 anni dopo? Chiesi subito in prestito il libro pensando di trovarvi la risposta e invece, a fine lettura mi posi una nuova domanda: chi ha scoperto l’Antartide?
Le enciclopedie c’informano che il primo ad avvistare il continente antartico fu T. von Bellinghauser ma nessuno riesce a dare una spiegazione convincente sul perché tanti navigatori, fra cui anche Cook, si siano avventurati nell’emisfero sud alla ricerca di un continente chiamato Terra Australis che nessuno aveva mai visto ma che alcune carte riportavano.
Unica spiegazione per giustificare queste “stranezze” cartografiche é che l’esistenza dell’Antartide era stata ipotizzata dai filosofi greci, primo fra tutti Pitagora (che non era un filosofo) nel 600 a. C.. Ma come poteva Pitagora conoscere l’Antartide se i greci pensavano che il mondo finisse a Gibilterra? Qualcuno non la racconta giusta.
Passarono gli anni e ogni tanto scoprivo un nuovo tassello di questo enorme puzzle che é la storia e ad ogni tassello nascevano nuove domande. Scoprii così che gli antichi che avevano studiato in Egitto sapevano che la terra é sferica e ruota attorno al sole, e che per deduzione logica si possono far risalire alla conoscenza egizia tutte le carte in cui compare l’Antartide prima della sua scoperta. Ma come facevano gli egizi a conoscere tutto ciò, e soprattutto come facevano a conoscere la forma delle coste dell’Antartide nascoste sotto i ghiacci?
Un giorno riguardando la carta dell’Antartide del National Geographic mi soffermai su una stranezza. Lo spessore dei ghiacci divide il continente antartico in due zone:
– il grande Antartide ad est con il polo sud, precipitazioni quasi nulle e uno spessore dei ghiacci che raggiunge i 4000 metri
– il piccolo Antartide ad ovest con la penisola antartica e i mari di Ross e di Weddell con forti precipitazioni e lo spessore dei ghiacci di poche centinaia di metri.
La logica deduzione a questa differenza di spessore é che il ghiaccio non si sia formato con le condizioni atmosferiche attuali perché in tal caso il piccolo Antartide avrebbe uno spessore dei ghiacci molto superiore a quello dell’arido grande Antartide, ed in effetti secondo alcuni glaciologi, il piccolo manto ad ovest avrebbe solo 10.000-12.000 anni.
Ma se il ghiaccio si é formato in due tempi diversi significa che l’asse di rotazione terrestre non é sempre stato nell’attuale posizione. Su questo punto quasi tutti gli scienziati sono concordi, unico punto di discussione é se lo spostamento sia avvenuto lentissimamente, con tempi geologici, o rapidamente, con effetti catastrofici.
Altra questione era se era ipotizzabile la presenza di una o più civiltà in grado di navigare e disegnare le coste del piccolo antartide prima dello spostamento dell’asse terrestre.
In questi anni ho raccolto parecchie leggende da tutte le parti del mondo in cui si parla di uno spostamento dell’asse terrestre e di una conseguente catastrofe, ma le prove antropologiche non sono sempre accettate, servono prove inconfutabili e perciò, quando nel novembre ’98 mi capitò sottomano il testo di un baleniere norvegese, Carl Anton Larsen, che dichiarava di aver trovato alla fine del’800 nell’isola di Seymour, in Antartide, delle “colonne in cemento che sembravano fatte da mano umana” pensai di aver gli indizi per trovare le prove archeologiche di una civiltà di antichi signori del mare, dello spostamento rapido dell’asse terrestre e dell’esistenza delle carte dell’Antartide.
L’idea di una spedizione archeologica in Antartide non era nuova, già nel 1983 i cileni ne avevano organizzato una. Il loro punto di partenza non erano le antiche mappe ma due punte di freccia che avevano recuperato casualmente dal fondo marino in due baie antartiche nel 1975. La spedizione non aveva portato a nessun risultato ma era comunque il segno che non ero il solo matto ad aver pensato che in passato l’Antartide fosse abitabile.
Trascorsi l’inverno e la primavera ’99 nell’organizzazione e nella ricerca di aiuti e dati per una spedizione in barca a vela in Antartide.
Erano vent’anni che lavoravo professionalmente come skipper e in barca a vela avevo fatto quasi tutto, dalla Coppa America al recupero di tossicodipendenti e minorenni criminali, mi mancava il mitico Capo Horn, l’Everest della vela, ma per andare in Antartide Capo Horn non é la fine della navigazione ma l’inizio e perciò tutto doveva essere fatto al meglio, tutto doveva essere previsto e nulla lasciato al caso. Purtroppo io so prevedere solo gli incidenti, non gli accidenti, e in un anno di navigazione capitano anche quelli.
Nel giugno ’99 partecipai ad un convegno di tre giorni del CNR e delle Università di Milano e Bergamo e conobbi l’ammiraglio Flavio Barbiero, ex responsabile della Nato dei sistemi giroscopici, che in cinque minuti dimostrò ai presenti come, essendo la Terra un giroscopio, bastasse un corpo celeste del diametro tra i 500 e i 700 metri per spostare l’asse terrestre e che l’eventualità che questo fatto fosse avvenuto nel passato e potesse accadere nel futuro era cosa matematicamente certa. Ricevuti gli appoggi teorici alla mia teoria dello spostamento dell’asse terrestre e gli auguri del caso partii per preparare la barca.
La spedizione
Nel 1998 avevo portato assieme a Marina la barca alle Canarie così quando decisi di partire per l’Antartide mi trovai con la barca più vicina all’Antartide, ma più lontana dall’Italia e quindi più difficile da attrezzare per una lunga navigazione polare per cui riuscii a partire per il sud solo a metà ottobre, un mese dopo la data stabilita.
Fin dall’inizio la spedizione ha sofferto di due mancanze: soldi e uomini. Per la ricerca dei primi mi rivolsi ad un’agenzia ma i risultati furono abbastanza scarsi, soprattutto per la mia volontà di non emettere fatture false in modo da permettere agli sponsor di fare del nero. Per l’equipagio sparsi la notizia nel mondo nautico e una ventina di persone si dichiararono entusiaste di accompagnarmi, quasi tutti sparirono prima di imbarcarsi per il profondo sud perché tra il sogno e la realtà c’è una bella differenza e così mi trovai alla partenza con un italiano, Lorenzo e un basco, Rudolf. Ben presto le scarse conoscenze nautiche e le negligenze del primo si scontrarono con la focosità e l’intolleranza del basco e al dodicesimo giorno dovetti correre in coperta per smorzare una lite ormai, letteralmente, ai coltelli. Dopo cinque giorni si ruppero due otturazioni dentarie a Rudolf e il giorno dopo iniziò a gonfiarsi la mascella. Feci rotta per il dentista più vicino, Salvador Bahia a 700 miglia.
L’otto novembre attraccavo allo yacht club di Bahia, ero distrutto nello spirito, non avevo mai visto una barca ridotta peggio perché i due rompevano e non si curavano della minima manutenzione, pulizia o riparazione. Mi presi due giorni di riposo e al terzo, riacquistata un poco di calma interiore, sbarcai i due ed iniziai a riparare da solo la barca. Fra i tanti danni il maggiore era la rottura del boma avvenuta durante l’ennesima lite dei due. A Bahia era impossibile ripararlo o riceverne un nuovo in meno di tre mesi perciò partii per un tour delle discariche e dei ferrivecchi finché trovai un profilato di alluminio che con 50 dollarii e una settimana di mio lavoro divenne il nuovo boma della Fragola.
Il primo dicembre arrivarono Marina e Gianni di Cattolica, dopo due giorni di acclimatazione andammo ad Itaparica a terminare i lavori e a fare cambusa. Lo scorrere del tempo mi metteva in ansia, secondo i miei programmi avrei dovuto essere ad Ushuaia ed invece ero ancora al caldo tropicale, ma mi ero detto che era meglio un avvio dolce e quasi croceristico per non distruggere i nuovi arrivati e così fu.
Alla fine di dicembre ci fermammo a Punta dell’Este dove festeggiammo tre volte il 2000: la prima volta secondo l’ora italiana, la seconda secondo l’ora GMT usata dai naviganti, e la terza all’ora locale.
Quando ripartimmo facemmo il pieno di gasolio al distributore del marina e dopo poche ore i filtri e i tubi si intasarono al punto che anche con filtri nuovi il motore non andava. I guai non arrivano mai soli e in queste condizioni passammo di colpo dalla bonaccia alla burrasca. Il Pampero, il famoso e pericoloso vento che scendendo dalla Pampa acquista velocità fino a giungere in mare con una forza tale da rompere alberi e affondare le imbarcazioni, era arrivato. Impiegammo 12 ore per percorrere le venti miglia che ci separavano da Mar del Plata e quando giungemmo davanti all’imboccatura era notte fonda e piuttosto di entrare in un porto sconosciuto senza motore e con quel vento preferii restare fuori in attesa della luce del giorno. Entrammo solo con la trinchettina a più di sette nodi e ci ancorammo davanti al Club Nautico dove ci ospitarono gratuitamente per una settimana mentre noi rifacevamo il circuito del carburante, vuotavamo il serbatoio, lo lavavamo e rifacevamo il pieno.
Ripartimmo con a bordo un argentino desideroso di navigare e conoscere il sud del suo paese. Il Pampero ci fece fermare un’altra volta a Caletta Valdes dove incontrammo i primi pinguini, eravamo già entrati nei 40 ruggenti, le latitudini sud in cui il mare é tanto grande che ruggisce continuamente. La navigazione, soprattutto di notte, cominciava ad essere fresca e il riscaldamento che diffondeva nell’interno aria calda ci faceva apprezzare meglio i tramonti infuocati della Patagonia. Eravamo in ritardo rispetto ai miei piani ma le informazioni che giungevano dall’Antartide ci dicevano di un disgelo in ritardo di un mese: potevamo ancora farcela. Poi l’accidente: il motore era stato completamente revisionato dalla fabbrica e continuamente controllato e coccolato da noi ma all’improvviso si ruppe la pompa dell’acqua dolce. Impossibile ripararla o sostituirla con una simile, serviva l’originale perchè navigare senza motore nell’estremo sud con una barca così grossa é troppo pericoloso. Telefonammo alla fabbrica che ci inviò il pezzo con un corriere e ci fermammo a Puerto Deseado per aspettare il ricambio.
Nell’attesa oltre a cento lavoretti alla barca andammo in escursione nell’interno risalendo il Rio Deseado per circa quattro ore. Quando scendemmo a terra in una valletta laterale trovammo due grotte con iscrizioni e mani dipinte finora sconosciute.
Quando dopo 16 giorni giunse il pezzo nessuno pensava fosse possibile arrivare in Antartide. L’argentino si era sbarcato e noi continuammo a navigare verso sud per arrivare ad Ushuaia. Gianni, perso tra i suoi problemi esistenziali, trascorse alcuni giorni chiuso nella sua cabina riemergendo solo per mangiare. Passammo dai 40 ruggenti ai 50 urlanti dove il vento urla continuamente fra le sartie e l’albero. Le vele erano ormai ridotte ai pezzi più piccoli: yankee 3, trinchettina o tormentina e la randa, quando era issata, con tre o quattro mani. I fronti passavano tanto rapidamente che i meteo argentini trasmessi ogni 12 ore non riuscivano a segiure le variazioni e quindi prendevamo le carte meteo cilene del pacifico per costruire noi i nostri bollettini, spesso migliori di quelli cileni. Lasciammo ad ovest lo stretto di Magellano e scendemmo la Terra del Fuoco finché, in una notte di burrasca ci avvicinammo al Le Maire. Questo passaggio tra la Terra del Fuoco e l’Isola degli Stati é tristemente famoso tra i naviganti australi perché le sue correnti provocano onde tali da mettere ancor oggi in difficoltà le navi militari. Dopo un accurato calcolo di venti, maree e correnti fatto sia da Marina che da me separatamente per non influenzarci a vicenda, all’alba del 18 febbraio attraversavamo lo stretto di Le Maire e in due giornate di venti deboli e sole giungevamo infine ad Ushuaia.
Eravamo nella città più a sud del mondo, avremo il coraggio e la forza di andare in Antartide?
Le informazioni che raccogliamo sono contrastanti; analizzando meglio scopriamo che esiste una possibilità di arrivare in Antartide ma serve un meteo giusto e determinazione. Durante una cena in un ristorante al lume di candela con una bottiglia di champagne argentino Marina mi sprona a partire. Il giorno dopo mentre controlliamo la barca si presentano due ragazzi che si offrono di accompagnarci in Antartide, uno é un canario di 26 anni, l’altro é di Pavia, Giuseppe, quasi trentenne, non é mai salito su una barca a vela. Col loro aiuto i lavori procedono più rapidamente. La Fragola è alleggerita di tutto quello che non serve, libri, spy genoa, chitarra. Oltre ai 450 litri nel serbatoio riempiamo anche cinque taniche di gasolio per il riscaldamento, cambusa, vestiti, e ancora cambusa e vestiti, petrolio, acqua; quanta roba serve per andare in Antartide! Pane, farina, altro pane tostato fatto cuocere apposta per noi, un motore a 4 tempi per il gommone perché col freddo l’olio della miscela blocca il carburatore; una bottiglia di wisky nel serbatoio dell’acqua come antigelo. Abbiamo informazioni meteo da fonti diverse: Giovanni da Ushuaia ci passa via radio il meteo cileno e argentino che riceve via internet e anche le situazioni in alcune stazioni antartiche, sempre via radio Ruben da Ushuaia e Rafael dalle Canarie ci danno il meteo delle università americane, noi riceviamo le carte cilene sul computer di bordo interfacciato con la radio e cerchiamo di capire con il nostro barometro e il nostro naso chi ha ragione e chi no. E’ anche capitato che abbiano sbagliato tutti!
In Antartide
Il primo marzo partiamo da Ushuaia, il cielo é grigio come spesso quaggiù, il meteo incerto, impieghiamo quasi una giornata per percorrere il Beagle, il lungo fiordo che collega la città all’oceano Atlantico. Dopo alcune ore di navigazione con vento na nord ovest riceviamo un avviso di burrasca e ci rifugiamo in una caletta a 10 miglia da Capo Horn. Il faro di Capo Horn é presidiato da tre militari cileni che contattiamo via radio varie volte al giorno non tanto per aver la situazione meteo all’Horn che, vista la distanza, é uguale alla nostra, ma per avere la situazione all’isola Diego Ramirez, un piccolo scoglio anch’esso con militari cileni 50 miglia a sud ovest di Horn. Per due giorni le onde sono di 10 – 11 metri, poi calano a 8 e quando arrivano a 5 metri decido di partire. La tattica é partire quando sta finendo una burrasca forte in modo da percorrere le 700 miglia del Drake, il passaggio fra Capo Horn e la Penisola Antartica, prima che arrivi un’altra burrasca forte. Da notare che i termini per esprimere il vento nel Drake sono diversi che in Mediterraneo: i trenta nodi, che qui sono considerati burrasca alle alte latitudini sono “viento regular” e i 40 nodi sono “viento forte” poi c’é il “viento muy fuerte” ed infine fra i 50 e i 60 nodi la burrasca.
L’attesa della partenza col vento che fischia giorno e notte é snervante ed io sono assalito da tremila dubbi, non é facile decidere di buttarsi nella coda di una burrasca forte per andare a navigare in quelle acque che il portolano inglese dell’Antartide chiama “a sud delle normali rotte di navigazione”; tentenno alcune ore poi infine decido e, salutato l’ormai familiare e “tranquillo” Capo Horn, mettiamo la prua a sud.
Il Drake è l’unica zona del mondo dove il vento e le onde possono ruotare attorno alla terra senza incontrare ostacoli, e si vede: le onde sono alte, maestose, forti, piene di energia; si può restarne affascinati o terrorizzati, non credo indifferenti.
Dopo alcuni giorni di navigazione il freddo si fa più intenso, la temperatura dell’acqua é prossima allo zero e un giorno prima di avvistare terra uno stormo si sterne antartiche viene a curiosare per ore attorno alla barca e a darci il benvenuto in Antartide. Purtroppo alla partenza ho tentennato qualche ora di troppo e quando siamo a poche miglia dall’isola di King George inizia un’altra burrasca. E’ buio e nonostante i vari fari di cui ci siamo dotati avvistiamo i ghiacci galleggianti solo quando sono molto vicini. Il pericolo é forte, basterebbe prenderne uno di striscio e l’acciaio dello scafo si aprirebbe come una scatoletta. Sappiamo tutti cosa fare in caso di naufragio, ognuno ha i suoi compiti ed un foglio appeso in quadrato li ricorda, ma sappiamo anche che finire in acqua significa morire in tre minuti.
La notte é lunga e col radar si vedono solo gli iceberg più grossi, mi rendo conto che nonostante manchino solo 100 miglia all’isola di Seymour non la potremo mai raggiungere senza urtare qualche pezzo di ghiaccio e rischiare la barca. Abbiamo percorso più di 10.000 miglia e cento miglia sembrano niente, ma qui fanno la differenza tra vivere e morire. Dirigiamo per entrare in Admiralty Bay nell’Isola di King George, nonostante siamo sottovento all”isola e dobbiamo lottare solo contro poco vento e poco mare impieghiamo 20 ore per percorrere le ultime 30 miglia.
L’Antartide é un posto grigio, senza alberi o erba, inospitale e freddo più per il panorama che per la temperatura, un posto dove nessun essere dotato di senno vorrebbe andare.
L’Antartide col sole é bellissimo, inebriante, splendente, ispira voglia di vivere e si respira un’aria leggera, ci si sente liberi e felici; vorrei vivere sempre qui col sole.
L’Antartide non ha mezze misure, ha solo degli estremi, é solo “issimo”.
Nella settimana che siamo rimasti ad Admiralty Bay abbiamo visitato una base brasiliana e una polacca, raccolto alcune pietre e conchiglie e un pezzo di albero fossile, un’araucaria, che é una pianta che vive in climi caldi. Abbiamo resistito per due giorni ad un Blizzard (forte vento dell’Antartide) di oltre 60 nodi con raffiche a 95 e quando il vento é girato a sud siamo partiti per tornare ad Ushuaia. Abbiamo riattraversato il Drake e quando siamo giuti a sessanta miglia a sud di Capo Horn ci sembrava di essere già nel giardino di casa.
Ad Ushuaia i tre ragazzi sono sbarcati. Rimasti soli, Marina e io, la prima settimana l’abbiamo trascorsa mangiando e dormendo (avevamo perso tutti alcuni chili), poi abbiamo fatto un giro nell’interno della Terra del Fuoco. Tornati a bordo anzichè tornare per il Le Maire abbiamo fatto rotta verso ovest e per un mese abbiamo percorso i canali cileni fino al canale di Magellano; posti bellissimi con i ghiacciai che scendono dalle montagne fino al mare. Per un mese non abbiamo visto tracce umane e tanto meno persone. Siccome la maggior parte dei canali é ancora sconosciuta abbiamo raccolto dati per una guida in lingua inglese.
L’otto maggio 2000 siamo usciti dallo Stretto di Magellano e siamo tornati in Atlantico. Un mese dopo abbiamo attraccato a Mar del Plata dove abbiamo lasciato la barca per tornare in Italia in aereo per problemi familiari.
Nel maggio 2001 sono andato a riprendere la Fragola con Nicola e Bruno, abbiamo risalito il Sud America e in Brasile siamo stati raggiunti da Peppino. A Dakar ci ha raggiunti Marina mentre Bruno e Nicola sono sbarcati. Siamo andati a Capo Verde e dopo sedici giorni di bolina mura a dritta contro 30-40 nodi siamo arrivati alle Azzorre dove abbiamo lasciato la Fragola. L’estate successiva siamo tornati a prenderla assieme a Giulio che è rimasto con noi fino a Gibilterra. A metà settembre Marina ed io siamo arrivati sulla costa toscana: un’accoglienza più gelida dell’Antartide. La barca era rimasta all’estero per più di cinque anni, un tempo impossibile per la burocrazia italiana, e una serie di contravvenzioni e ingiunzioni ci hanno costretto a tirarla subito in secca. Avevo promesso a Marina che dopo tanto oceano ci sarebbe stata un’estate di relax e bagnetti e nell’estate 2003 abbiamo circumnavigato l’Italia tornando a Venezia, città da cui eravamo partiti trentamila miglia prima.
Risultati ottenuti
Dal punto di vista scientifico: abbiamo verificato e dimostrato la teoria dello spostamento dell’asse terrestre. Abbiamo trovato resti fossili d’alberi subtropicali che provano come in quella parte dell’Antartide il clima fosse tanto caldo da permettere la vita ad una foresta d’araucaria. Dodici anni dopo di noi, un gruppo di ricercatori della Nuova Zelanda e dell’Australia partendo da analisi completamente differenti sono giunti alle nostre stesse conclusioni.
Dal punto di vista velico abbiamo circumnavigato la Terra del Fuoco, siamo passati due volte sotto Capo Horn, attraversato due volte il Drake, siamo stati la prima barca a vela italiana a giungere e tornare dall’Antartide e per questo motivo abbiamo ricevuto un telegramma di congratulazioni dal Presidente della Repubblica.
Una piccola Fragola è finita sui libri di storia e geografia e li ha cambiati.
Neppure la famosa Coppa America è riuscita a tanto.
Nel 2004 è uscito il libro Una Fragola tra i ghiacci, ed. Il Frangente, Verona.
Questi obbiettivi sono stati raggiunti grazie a Marina, Gianni, Beppe e Juan. Abbiamo compiuto un viaggio straordinario, sicuramente per noi indimenticabile, salvato la barca e riportato a casa la pelle.
Galileo Ferraresi
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